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L'Africa dentro di me

L'Africa dentro di me

Brossura editoriale,350 pagine, formato cm 13,7x21,2
ISBN 978-88-8068-338-4
Disponibile in libreria

 

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Come si sente uno che si lascia alle spalle un’Europa del benessere per tuffarsi in un deserto di povertà e di estraneità? Che cosa fa un missionario tutto il giorno? Che cosa se ne fa della pace, della solitudine, del silenzio uno che ha soltanto questi beni senza averne più il desiderio? Il diario cerca di rispondere a queste domande senza fare della filosofia, ma seguendo il racconto serrato e asciutto di una quotidianità che è sempre sorprendente, perché inaspettata. Sul filo della narrazione umana e laica, l’autore consegna al lettore storie, avventure, note di antropologia remota e primitiva, insospettata, dove le ore si contano a partire dal tramonto, in modo biblico sul multiplo di dodici e la luna, maschile, prende il posto del sole, femminile; la sposa si paga con una dote di animali e gli animali selvatici o feroci sono un pericolo da cui guardarsi, come dalle auto nelle nostre città. Due popolazioni – gabra e samburu – soffrono la fame e la sete, come condizione abituale di vita e rivelano un’imbattibile capacità di resistere alla mancanza di tutto, dal cibo solido all’elettricità, ai mezzi di trasporto, al giornale, al frigorifero.


Prefazione

«In Italia sognavo il deserto. Le cose, quando le hai, non le desideri più. Mi raccolgo in preghiera e termino subito. Non mi vengono le parole. La preghiera è come l’amore: sta più nel desiderio che nel possesso. A volte metti la mano nella sabbia; ti sembra di poterla riempire. Stringi e non hai nulla. Il senso di vuoto e di impotenza forse è già preghiera (...). È strano come si desideri sempre essere da qualche altra parte; si vede che c’è una parte che ci sembra migliore di altre. Ma forse anche questa è immaginaria». In queste parole c’è molto dello spirito di questo libro e del suo autore, la sua capacità introspettiva, spesso autocritica, ma anche la voglia di andare avanti, di ricercare nuove vie.
Conosco don Piero Gallo da alcuni anni, di persona. Prima lo conoscevo per via mediatica, come parroco di San Salvario, uno dei quartieri di Torino più segnato dalla presenza di stranieri e allora apprezzavo la sua capacità di mantenere sempre posizioni solide ed equilibrate, fuori dalla semplicistica dicotomia per cui gli stranieri sono tutti cattivi oppure buoni per natura. Poi l’ho incontrato in occasione della presentazione di Logiche meticce, saggio antropologico di Jean-Loup Amselle e qui don Gallo mi aveva colpito per la preparazione teorica e la profonda capacità di analisi. Mi aveva colpito anche a livello personale, perché spesso gli antropologi, che scrivono torrenti di parole contro i pregiudizi, nei confronti dei sacerdoti e dei missionari i loro bei pregiudizi li hanno sempre avuti. Capita, infatti, che la patente di etnologo o di antropologo accademico, conferisca più autorità a uno studioso che ha soggiornato qualche mese in un luogo che a un missionario che ci ha vissuto per anni e anni.
Questo libro non è però una monografia etnografica, sarebbe riduttivo pensarlo così e queste non sono le finalità dell’autore. È il racconto vissuto di un’esperienza fatta in Kenya all’inizio degli anni Ottanta, tra i Gabra prima e tra i Samburu poi. Ma non è neppure solo un libro sull’Africa, nel fluire di quello che solo a uno sguardo superficiale sembra un diario, si intrecciano diversi livelli di lettura: lo sguardo del religioso che riflette sul suo lavoro di missionario, ma anche sul senso delle religioni, al plurale, perché Piero Gallo non utilizza la fede di cui è portatore come unica chiave di lettura, ma come anello di una catena da comporre con altri anelli. «Al momento sono placati, ringraziano per le cose che si preannunciano importanti, ma rimane quell’ombra sull’emancipazione femminile, che a loro appare negativa e a me così positiva. Cerco di contenermi: mi piace pensare che il Vangelo cambi la vita (lo deve fare)… e che lo si possa notare» scrive in un momento di sicurezza, ma poi rimane stupito fino alla commozione quando Ole Parker, anziano masai, gli dice: «Credere è come essere d’accordo (...). Vedi, noi non siamo andati a cercarti. Tu sei venuto a cercare noi. Sei partito da Nairobi, ma dal tuo paese cominciavi a pensare a noi. Poi ci hai trovati. Voi missionari pensate di essere il leone; alla fine, il leone è Dio».
Lo sguardo dello straniero, del bianco, che l’Africa, come tutto il sud del mondo, costringe a ripensarsi, a ricollocarsi nello spazio e tra la gente. «A Torino desideravo diventare povero: abitare in una casa popolare in corso Taranto mi pareva un privilegio. Ora mi sembra di essere diventato povero senza più desiderarlo. Il possesso si confonde col potere. Non possiedo quasi nulla e non ho potere; anzi mi scopro già talvolta a soffrire a motivo dell’estraneità, che è dipendenza e quindi assenza di potere», scrive Piero Gallo, e da queste sue righe traspare il disagio, il senso di inadeguatezza che spesso prende alla gola chi si confronta con l’Africa. Il disagio di essere comunque, benché venuti con spirito missionario, figli di un Occidente ricco di fronte al dramma della povertà. Ma anche della solitudine che si prova nel trascorrere lunghi periodi in un contesto sociale e culturale diverso dal nostro: «La solitudine di questi mesi mi ha anche insegnato a fare il vuoto dei sentimenti, per non soffrire. Talvolta penso che gli occhi si possono chiudere e non le orecchie. Sarebbe bello poter chiudere anche queste. Ma nel deserto, anche aperte, non danno troppo fastidio». Soffre, e lo fa spesso, perché l’Africa fa soffrire i suoi figli e ancor di più chi africano non è, con i suoi estremi quotidiani di spazio, di tempo, di clima: «Coi pantaloni corti che sono costretto a indossare, mi bruciano anche la gambe. Vorrei rimanere in piedi, ma il caldo mi spossa e dilata le vene, che producono i primi noduli irreversibili. Passa un nomade alto e snello, turbante, lenzuolo bianco sulle spalle, calzoni corti e tyres ai piedi. Cammina sul crinale di una leggera ondulazione di sabbia. Tiene il bastone sul collo ed entrambe le mani appoggiate ad esso: sembra una scultura di Giacometti».
Alle attente descrizioni etnografiche sugli usi e sulle tradizioni delle popolazioni con cui convive, Piero Gallo alterna profondi momenti di intimismo, che diventano toccanti quando si fanno crisi, quando le certezze vacillano e tutto sembra andare per il verso sbagliato. Sono passaggi che mettono in luce l’uomo, non il missionario, ma l’uomo nelle sue debolezze che possono tradursi in rabbia momentanea: «Parlo forte da solo e ne dico di tutti i colori. Non conosco la bestemmia; non ne ho mai dette; ma quello poteva essere l’ambito idoneo al loro collocamento». Sono passaggi come questi che rendono bello e interessante il libro, perché sono la testimonianza del confronto a cui una terra come l’Africa costringe, con il suo paesaggio, con la sua gente. Qualcuno lo chiama «mal d’Africa», ma non è esatto, una malattia la si contrae e si cerca di debellarla, di allontanarla. L’Africa pone dubbi a cui è difficile sfuggire, sembra essere fatta apposta per smontare ogni convinzione occidentale. Allora bisogna fare un passo indietro e provare a capire, anche se costa caro. Costa non solo in fatica fisica, ma in termini di umiltà, di attenzione, di coraggio nel saper mettersi in discussione con le proprie certezze. E se queste certezze sono dogmi di una religione, forse il compito è ancora più arduo.
A ben guardare, il lavoro di Piero Gallo, che in molti casi si fa attento osservatore delle società che lo circondano, senza forse averne l’intenzione ha scritto un racconto etnografico moderno, in cui non può vivere solo la descrizione asettica e presuntamente oggettiva della realtà osservata, ma dove l’esperienza del ricercatore, con il fardello della sua origine, del suo sesso, del suo status, del suo lavoro si intreccia con il vissuto, filtrando inevitabilmente lo sguardo.
«Nessuno sa dove va, ma solo da dove viene» recita un proverbio africano. Don Piero Gallo è ora a San Salvario, con problemi diversi da affrontare rispetto a quando era nelle sue missioni in Kenya. Non so se sa dove va, di certo sa che è venuto da quell’Africa, che gli è rimasta dentro.
Marco Aime
 
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