Il meglio degli anni ’60
L’alpinismo della Rivista del CAI
Cartonato con sovraccoperta plastificata a colori, formato cm 14x21,5, 416 pagine con inserto fotografico
Disponibile in libreria
In collaborazione con il Club Alpino Italiano
Recensioni
- Le Alpi VeneteL’abitudine alla rilettura per chi ha un rilevante passato personale alle spalle è un’operazione memoriale quanto mai proficua e feconda, perché rinfresca la mente e dà risalto ad aspetti a suo tempo non debitamente presi in considerazione. Invece i “virgulti” di fresca data anagrafica, già al primo impatto, sono indotti a riflettere sull’evoluzione dell’alpinismo e della società civile del tempo. Quindi non si può che approvare questa rivisitazione degli anni ‘60, indotta poi da ineccepibili testimoni come Alessandro e Alessandra. Con calibrata ponderazione ed oculatezza autenticano un ventaglio di contributi che diventano “il” paradigma della realtà degli anni ‘60 V. Imprese, Personaggi ed Idee . Come scrive il Presidente Generale Annibale Salsa nella Presentazione, queste testimonianze diventano “uno strumento prezioso nel soddisfare i nuovi bisogni di “prossimità” nei confronti di luoghi un tempo familiari ma diventati, negli ultimi anni, estranei e lontani. Attraverso la Rivista possiamo rivisitare i tentativi di scoperta dei nuovi orizzonti dell’ alpinismo ... “ Per questa sua specificità la relazione tra coloro che scrivono ed i destinatari del racconto diventa significativa. In particolare ci sono poi letture, come quelle relative all’ammissione delle donne all’Accademico, che mettono di fronte ad interpretazioni manifestamente modellate a suo tempo su scorci di dissonanti mentalità, destinate a contrapporsi ben oltre gli anni ‘60 considerati. L’ampia scenografia squadernata a metà libro dà sufficientemente l’idea d’un periodo dell’alpinismo comunque fertile e complesso perché no? e, ancora comunque, da rimeditare. Debitamente, che non guasta. a. S.
- TOI MagazineNella collana Campo Quattro di Priuli & Verlucca arriva Il meglio degli anni Sessanta ovvero un decennio di alpinismo glorioso rivissuto attraverso le pagine della rivista del Cai. Alessandro Gogna e Alessandra Raggio hanno ricostruito attraverso le testimonianze di famosi scalatori le imprese di quel decennio, segnato dalle ultime conquiste della catena dell’Himalaya, l’epocale passaggio dall’artificiale ad una nuova scalata libera e la soluzione degli ultimi grandi problemi invernali. Belle le immagini in b/n al centro.
- CDP
Il meglio degli anni ’60 - Alp+
segnalazione - ALP+
Memorie da collezionare - discoveryalps.itArticoli d’annata dalla Rivista Mensile del Cai (decennio 1960 -1969) per l’ultimo volume un po’ “vintage” della collana “campo quattro” di Priuli & Verlucca: “Il meglio degli anni ’60 – L’alpinismo della Rivista del Cai” (euro 18,50). I curatori Alessandro Gogna e Alessandra Raggio hanno raccolto i pezzi accompagnandoli con una breve analisi critica.
Senza dubbio in quel decennio la Rivista mensile era “il” punto di riferimento dell’alpinismo italiano, essendo lo Scarpone l’unico concorrente di carta stampata e mancando internet. La Rivista mensile era nata nel 1879 e aveva documentato periodi cruciali dell’alpinismo, da quello esplorativo all’epopea del sesto grado, alle imprese eroiche del dopoguerra. Gli autori si sono però concentrati su un decennio in cui l’alpinismo era ancora “di conquista”, ma già conteneva i germi di profondi cambiamenti di stile.
Negli anni ’60 le grandi realizzazioni, soprattutto solitarie ed invernali sulle Alpi e alcune prime himalayane, trovavano “voce” e visibilità sulle pagine della Rivista, in articoli che i curatori giudicano “di grande spessore, se non letterario, di sicuro alpinistico”. In quegli anni la Rivista pubblicava firme destinate a diventare prestigiose da Reinhold Messner ad Armando Aste, da Toni Hiebeler a Cosimo Zappelli. Il Monte Bianco, il Monte Rosa, il Cervino, il Civetta, il Campanil Basso, l’Agnèr e la Torre Trieste, il Kanjut Sar e l’Everest sono solo alcuni dei luoghi teatro di imprese che circa cinquant’anni dopo conservano intatta la loro grandezza.
Molti degli articoli ci riportano a un alpinismo di “frontiera”, mai osato prima. La parete viene salita “metro su metro con fatica inumana” fino al coronamento finale di lacrime e soddisfazione. Sofferenze e gioia finale, la comprensione degli sforzi fatti da parte degli altri alpinisti, la confessione di piccoli ingenui incidenti (la perdita di un sacco con viveri e fornello a metà di una via, il prendere tra i denti un chiodo a venti gradi sotto zero, con le inevitabili conseguenze sulla lingua…) sono gli ingredienti semplici ma efficaci delle letture che hanno nutrito molti alpinisti della generazione appena passata.
Oltre alle imprese una parte del libro è dedicato alle idee. Accanto alle discussioni sul sesto grado e sull’arrampicata artificiale, qui trovano posto scritti esemplificativi di quanto siano cambiati i tempi: il dibattito sulla mancata ammissione delle donne nel Club Alpino Accademico ne è un esempio. Accadeva nel 1966. Neppure mezzo secolo fa, ma quante giovani alpiniste ricordano oggi quel periodo? Uno sguardo al passato, soprattutto se raccolto in un unico comodo volume, non guasta. - La Vallée
L’alpinismo degli anni Sessanta attraverso la rivista mensile del CAI - La Repubblica
La rovoluzione parte dalle pagine del CAI - La Stampa
Gli Anni Sessanta dell’alpinismoUna rivista che attraversa tre secoli per raccontare nell’ 800 come oggi la montagna, novità, imprese ed eroismi. Ora il meglio di ciò che fu pubblicato negli Anni Sessanta è stato raccolto nel libro della Priuli. - Alp
Appuntamento in libreria - Tuttolibri
Il meglio degli Anni 60Gli stessi autori, sempre per Priuli & Verlucca, firmano Il meglio degli Anni 60. L’alpinismo della Rivista del Cai (pp. 416, e 18.50), antologia che accoglie articoli di Messner, Aste, Mazeaud, Hasse, Hiebeler, Rusconi e altri. - La Cronaca di Piacenza“Il meglio degli anni Sessanta. L’alpinismo della Rivista del Cai” è invece il titolo di uno splendido volume dell’editore Priuli-Verlucca. Un’opera frutto delle ricerche di Alessandro Gogna e di A. Raggio che raccoglie i resoconti più belli ed appassionati pubblicati dalla riviste in questione in un periodo molto affascinante della storia della conquista della montagna: il periodo esplorativo, l’epoca del sesto grado, un periodo affamato di eroismo e di imprese a livello popolare. Negli anni ‘60 si sono infatti realizzate le ultime significative imprese dell’alpinismo di conquista himalayano, l’epocale passaggio dall’artificiale a una nuova arrampicata libera e soprattutto la soluzione degli ultimi grandi problemi invernali.
- alpinia.net
Qui la recensione sul sito alpinia.net
Questo libro ci presenta una ricca selezione di pagine di storia dell’alpinismo con le più importanti firme di questo straordinario mondo.
Aperta alla collaborazione di tutti gli appassionati di montagna e di alpinismo, quella che si chiamava Rivista Mensile del CAI continuava – allora come oggi – la sua lunga tradizione nella diffusione della cultura alpinistica.
Nata nel 1882, la Rivista Mensile aveva attraversato tutto il periodo esplorativo, l’epoca del sesto grado e ben due guerre mondiali, più un dopoguerra affamato di eroismo e di imprese a livello popolare.
Negli anni ’60 si sono realizzate le ultime significative imprese dell’alpinismo di conquista himalayano, l’epocale passaggio dall’artificiale a una nuova arrampicata libera e soprattutto la soluzione degli ultimi grandi problemi invernali.
Dieci anni gloriosi, una preziosa ed emozionante documentazione, con le firme più prestigiose: Messner, Aste, Mazeaud, Hasse, Hiebeler, Rusconi, Monzino, Stenico e tanti altri.
Estratti
Prefazione di Annibale Salsa
“Pagine di storia dell’alpinismo con le più importanti firme”
Aperta alla collaborazione di tutti gli appassionati di montagna e di alpinismo, quella che si chiamava Rivista Mensile del CAI continuava – allora come oggi – la sua lunga tradizione nella diffusione della cultura alpinistica. Nata nel 1882, la Rivista Mensile aveva attraversato tutto il periodo esplorativo, l’epoca del sesto grado e ben due guerre mondiali, più un dopoguerra affamato di eroismo e di imprese a livello popolare. Negli anni ’60 si sono realizzate le ultime significative imprese dell’alpinismo di conquista himalayano, l’epocale passaggio dall’artificiale a una nuova arrampicata libera e soprattutto la soluzione degli ultimi grandi problemi invernali. Dieci anni gloriosi, una preziosa ed emozionante documentazione, con le firme più prestigiose: Messner, Aste, Mazeaud, Hasse, Hiebeler, Rusconi e tanti altri.
SOMMARIO
PRESENTAZIONE
Introduzione
Imprese
1. La Parete Rossa della Roda di Vael di Dietrich Hasse
2. La spedizione GM ’59 al Kanjut Sar di Guido Monzino
3. Piz Seràuta di Armando Aste
4. La Nord del Cervino di Piero Nava
5. I cinesi all’Everest di Shih Chang-chun
6. Parete nord del Nesthorn di Pier Luigi Bernasconi
7. Sulla Nord del Marguareis, doppio Armando alla Tino Prato di Armando Biancardi
8. La via Livanos alla Su Alto d’inverno di Giorgio Redaelli
9. Sullo spigolo della Torre della Vallaccia di Toni Gross
10. Otto giorni sulla Nord-ovest della Civetta in inverno di Toni Hiebeler
11. All’Aiguille Verte d’inverno di Mario Bertotto
12. Carnevale sul Campanile Basso di Gianni Ribaldone
13. Sulla Nord delle Grandes Jorasses d’inverno di Cosimo Zappelli
14. Il Pilier Gervasutti al Mont Blanc du Tacul di Corradino Rabbi
15. D’inverno al Grand Capucin di Armando Marchiaro
16. Una prima invernale in Val d’Ambiez di Gianni Mazzenga
17. Alla Dufour d’inverno di Luciano Bettineschi
18. La via del Miracolo di Pierre Mazeaud
19. Pioggia sull’Agnèr di Gino Buscaini
20. Alla Punta Gnifetti d’inverno per la «?via dei Francesi?» di Armando Chiò
21. La via Hasse alla Torre Innerkofler di Marino Stenico
22. La parete nord-est dell’Agnèr di Reinhold Messner
23. Alla Torre Trieste d’inverno di Giovanni Rusconi
24. Nell’ombra dell’Agnèr di Reinhold Messner
PERSONAGGI
25. L’ultimo viaggio di Attilio Tissi di Toni Hiebeler
Idee
26. Difendiamo le vette dall’attacco dei tram di Giorgio Bassani
27. La questione delle donne nel CAAI di Massimo Mila
28. A proposito delle donne nel CAAI di Bepi Pellegrinon e Piero Rossi
29. Democrazia e donne alpiniste di Michele Rivero
30. Il sesto grado non esiste! di Severino Casara
31. L’assassinio dell’impossibile di Reinhold Messner
32. La montagna e il sacro nelle religioni arcaiche di Carlo Alberto Pinelli
33. La svalutazione del VI grado di Reinhold Messner
34. Apologia dell’arrampicata artificiale di Tarcisio Pedrotti
Bibliografia
introduzione
Esaminando un arco di dieci anni (1960-1969) la cui fine è esattamente quaranta anni fa, la prima reazione che abbiamo è di incredulità sugli enormi passi avanti compiuti, sulle differenze, sugli stili cambiati e soprattutto sull’accelerazione della vita quotidiana.
E, rimanendo nello stretto ambito alpinistico, quest’impressione è destinata ad aumentare. Negli anni Sessanta l’alpinismo, sia quello alpino sia a maggior ragione quello extra-europeo, era ancora “di conquista”. Dopo l’orgia di tecnicismi e di artificiale degli anni Cinquanta si affacciava l’ipotesi di un ritorno alla “libera”, ma ancora non si metteva in discussione che la montagna fosse un oggetto da vincere. Solo all’inizio degli anni Settanta fu chiaro che i mezzi della tecnica offrivano le più ampie possibilità di vincere, forse troppe. E dunque era opportuno fare un passo indietro, sostanzialmente rinunciare non solo a nuovi tecnicismi ma addirittura fare a meno di mezzi e metodi ormai nell’uso.
Prima di questo passaggio epocale abbiamo l’alpinismo degli anni Sessanta, un alpinismo dunque di conquista, un alpinismo che non può fare a meno della relazioni e dei racconti, tanto più in epoca come quella, caratterizzata da possibilità visive decisamente limitate.
Dove si dovevano e potevano ottenere ancora vittorie? Dove si poteva ancora parlare di evoluzione? Certamente nelle prime ascensioni di pareti ancora da fare, dall’Himalaya alla Patagonia, qualcosa anche sulle Alpi. Ma certamente, su queste ultime, la problematica maggiore era nelle salite invernali e in quelle solitarie. E infatti è proprio questo genere di imprese che caratterizza il decennio: il numero delle riuscite performance solitarie è strabiliante, come pure quello delle grandi pareti salite d’inverno e per la prima volta.
Un periodo così particolarmente ricco di realizzazioni non poteva non lasciare traccia negli scritti e nella cultura alpinistica in generale (film, conferenze ecc.). In quel periodo le possibilità espressive erano decisamente limitate rispetto a oggi. Al posto di internet, fax, e-mail, telefonini e satellitari c’erano la macchina da scrivere o il foglio bianco su cui tracciare a penna i propri ricordi e riflessioni. Al posto delle immagini digitali che fanno il giro del mondo in un secondo, c’erano foto in bianco&nero o a colori kodak (già sbiaditi in partenza), predisposte più che a una rapida clonazione a un solitario soggiorno nei cassetti, illimitato ma comunque lentamente corrosivo della qualità. Per non parlare delle diapositive... Al posto di tante case editrici pronte a pubblicare nuovi libri o traduzioni da altre lingue, c’erano pochi editori che stavano parecchio attenti a non prendere neppure in considerazione chi non si chiamava Bonatti o Maestri. Al posto delle odierne riviste patinate c’erano solo il quindicinale «?Lo Scarpone?» e la vecchia e gloriosa «?Rivista Mensile del CAI?».
Ed è proprio su quest’ultimo periodico che si appuntavano le speranze di visibilità di coloro che avevano voglia di scrivere. Se c’era stata l’impresa era lo stesso caporedattore Giovanni Bertoglio che si metteva in contatto con gli alpinisti e gli sollecitava una relazione. Ecco quindi spiegata la fioritura di articoli di grande spessore, se non letterario di sicuro almeno alpinistico, apparsi sulla rivista nei dieci anni da noi presi in considerazione. Un’operazione dunque, quella di ripescarne e riproporne il meglio, che andava fatta. E che, ci auguriamo, possa trovare spazio negli interessi di tutti gli appassionati di montagna.
Capitolo 17
ALLA DUFOUR D'INVERNO di Luciano Bettineschi
17. Alla Dufour d’inverno
di Luciano Bettineschi
(6-1966, pag. 69)
Punta Dufour 4633 m, parete est, 1a ascensione invernale
Luciano Bettineschi, Felice Jacchini, Michele Pala e Lino Pironi, 5-6 febbraio 1965
Luciano Bettineschi (Macugnaga, 1933 – Macugnaga, 1983) è stato guida alpina e istruttore ai corsi guide. Ha aperto numerose nuove vie soprattutto nel gruppo del Rosa e può essere considerato il maggiore protagonista dell’alpinismo di Macugnaga negli anni Sessanta e Settanta. Di particolare importanza sono alcune sue prime invernali, compiute alla testa di cordate composte da altre guide locali: sperone est del Gran Fillar (con Carlo Jacchini, 4 gennaio 1964); diretta alla parete sud del Pizzo Bianco (con Piero Signini, 19-21 marzo 1966); parete est della Dufour (di cui si narra nel presente racconto, 5-6 febbraio 1965); Cresta di Santa Caterina (con la stessa squadra della Dufour con l’aggiunta di Carlo Jacchini, 10-11 febbraio 1967); via Bisaccia-Bramanti allo spigolo est del Piccolo Fillar (con Vittorio Bigio, Claudio Schranz e Tino Zambonini, 10-12 marzo 1971).
La colossale parete est del Monte Rosa si era lasciata vincere la prima volta il 22 luglio 1872 dagli inglesi Richard e William-Martin Pendlebury e Charles Taylor con la mitica guida Ferdinand Imseng coadiuvato da Giovanni Oberto e Gabriel Spechtenhauser. La cordata aveva seguito il logico tracciato dell’enorme canalone ghiacciato che solca quasi tutto il versante. Dopo la seconda ascensione di Robert von Landenfeld, con Joseph Knubel, Clemente Imseng e un portatore (10 agosto 1880), nel tentativo seguente (8 agosto 1881) si verificò la grande tragedia cui sopravvisse solo il portatore Alessandro Corsi: furono travolti da valanga lo stesso Ferdinand Imseng, Battista Pedranzini e Damiano Marinelli. Ed è in onore di quest’ultimo che il grande canalone prese il nome di Canalone Marinelli. Grandi nomi in seguito percorsero l’itinerario, da Alexander Burgener a Ludwig Purtscheller e i fratelli Otto ed Emil Zsigmondy, da Matthias Zurbriggen a Julius Kugy.
Dal 9 all’11 marzo 1953 Emilio Amosso e Oliviero Elli tentano la prima invernale riuscendo in due giorni a superare la parete fino alla sommità del Canalone Marinelli (Sella d’Argento), via d’uscita più rapida che ovviamente evita la cresta finale sulla Punta Dufour. La discesa a Zermatt avviene il 12, con una marcia penosa nella bufera e gravi congelamenti alle estremità. La prima invernale « vera » sarà compiuta solo 12 anni dopo. (Nota dei curatori).
Fin dall’inizio dell’inverno stavamo studiando il modo migliore per dare il nostro contributo all’« Anno delle Alpi » che stava per iniziare, in ricordo della centenaria vittoria di Whymper sul Cervino. Ci parve che il miglior programma dei nostri festeggiamenti dovesse consistere in una salita invernale su quella che noi consideriamo la « nostra » parete: la Est del Rosa. E poiché la massima vetta del massiccio, la Dufour, non era ancora stata salita d’inverno per quella parete, la scegliemmo come primo atto del programma che intendevamo attuare a modo nostro, da uomini di montagna.
Fra tutte le guide fummo scelti noi quattro. Gli altri si divisero in due gruppi: alcuni ci avrebbero accompagnato alla capanna Marinelli, altri avrebbero raggiunto Zermatt per venirci incontro lungo il facile versante svizzero.
Lasciammo Macugnaga il mattino del 4 febbraio. Il tempo era freddo, ma bello. Nel pomeriggio eravamo alla Marinelli, ove ci avevano preceduti, curvi sotto i sacchi, gli amici Ernesto Fich, Carlo Jacchini e Dario Antematter. Passammo la serata in buona allegria. Ma fu subito tempo di partire. Alle 22 lasciammo quella « vedetta in prossimità delle vie percorse dalle valanghe » (come la definì l’allora don Achille Ratti) divisi in due cordate: Felice con Luciano e Michele con Lino. Proseguimmo sempre così, alternandoci tutti al comando.
È nostra intenzione risalire direttamente il canalone Marinelli che d’inverno… entra in letargo diventando pressoché inoffensivo. Ma affondiamo subito nella neve fin sopra il ginocchio e non ci resta che ripiegare sul crestone Imseng. Così ci vediamo costretti a seguire la via estiva, che il nostro Imseng tracciò nel lontano 1872 insieme ai soliti inglesi.
Poco dopo la mezzanotte le prime difficoltà. Le pile non funzionano più. Cambiamo le batterie, ma ci troviamo ancora quasi al buio. Colpa del freddo intensissimo forse? Comunque, quando tornammo a casa due giorni dopo, le pile tornarono a funzionare con la massima regolarità.
Alle quattro ci sorbiamo la prima seria difficoltà tecnica: un lastrone di ghiaccio che unisce la cresta Imseng con la parete vera e propria. Secondo inatteso incidente: si rompe l’anello di un chiodo. Solite imprecazioni. Continuiamo. Il bello deve ancora venire.
Superiamo agevolmente le « rocce grigie », che si presentano come un misto di III superiore, molto esposto; come tutta la via, del resto. Entriamo nello scivolo di ghiaccio che si allarga a ventaglio diventando parete. È il punto più ripido di tutta l’ascensione: un centinaio di metri con pendenza che si avvicina ai 65°. La neve è comunque buona. Solito lavoro di piccozza, a cui siamo naturalmente allenatissimi. Tre lunghezze, con un chiodo di sicurezza, e siamo fuori. L’esposizione diminuisce sui 50°, ma più ci innalziamo più la neve diventa brutta.
Dalla Nordend arriva improvvisamente un vento freddo e sferzante. Sono quasi le nove. Ci fermiamo a sorbirci un tè, poi passiamo senza eccessivo impegno il labbro del crepaccio terminale. Il vento non dà segno di tregua. Sono le avvisaglie della tormenta. Incomincia la doccia: cascate di neve ci investono con frequenza e con intensità sempre maggiore. Il sole, che avevamo salutato poco prima come il liberatore dal freddo polare e che ci aveva tenuto compagnia per tutta la notte, scompare.
Appena sopra il crepaccio terminale troviamo banchi di neve instabile. Dobbiamo usare la massima circospezione per non partire con qualche slavina. Le rocce, che sembrano a portata di mano, vanno e vengono dietro il nevischio. Poco dopo siamo in piena tormenta. Risaliamo lo scivolo finale sui 55°. La bufera diventa sempre più intensa. Il vento sembra strapparci dalla parete da un momento all’altro. Non vediamo più il compagno di cordata. Procediamo d’intuito e con la massima prudenza.
Alcune lunghezze in neve discreta, poi quattro di ghiaccio vivo, in cui la piccozza penetra senza riuscire a scheggiarlo. Una fatica improba con il terrore di essere scaraventati giù dalla parete perché anche i chiodi sembrano schizzar fuori dalla « vasca » che vi scaviamo.
Siamo una categoria speciale di dannati, che impiega un quarto d’ora per ogni gradino. Di tanto in tanto intravediamo, nelle brevi pause della bufera, le rocce rossastre che ci sovrastano.
Alle 13 tocchiamo la « terraferma ».
Attacchiamo le rocce dove si saldano affusolandosi nel ghiaccio. Incontriamo subito un lungo diedro assai esposto e con scarsissimi appigli tutti ricoperti di vetrato.
È un buon V grado. Si continua un po’ alla « spera in Dio », sperando appunto di uscire dall’inferno. Dopo il diedro, ci tocca sorbire un susseguirsi di placche fino ad un tetto. È il momento di togliere dal sacco una staffa, la unica che abbiamo usato. E su come automi, sballottati dal vento, nella furia degli elementi.
Usciamo sullo spigolo. Due lunghezze ancora, nella illusione di trovare qualche posto buono per l’inevitabile bivacco, spinti da una forza disperata. Sono le diciassette passate. Breve consiglio. Poi ci prepariamo il bivacco.
Vento che urla incessante, nevischio mulinante sul volto, pensieri strani, improvvise paure, brevi silenzi pieni di drammatica attesa. Freddo, tanto freddo.
Siamo ancorati su minuscole cenge a oltre 4300 metri, poco sotto la lapide bianca che abbiamo murato nel ’61 a ricordo di Gildo Burgener, il nostro amico caduto proprio lì e non ancora reso dai ghiacciai. Sotto di noi, più di duemila metri di strapiombo. E là in fondo Macugnaga, le nostre case, la Zamboni, il Belvedere. Ci appaiono a tratti le loro piccole luci, mentre la tormenta va scemando.
Verso mezzanotte il vento si placa. Forse è davvero finita. La notte è eterna, il freddo polare. Lascerà il segno. Ma il crepuscolo ci annuncia una giornata splendida: il cielo è tornato pulito, il vento quasi scomparso.
Alle otto del mattino è tempo di ripartire. La vetta sembra a portata di mano, trecento metri sopra.
Ci spingiamo leggermente verso la sinistra, in direzione del Colle del Papa, poi su dritti verso la cima. D’un tratto, improvviso il rumore di un elicottero. Ci cerca insistentemente senza riuscire a scorgerci, anche perché il nostro non è un luogo troppo adatto per fare segnalazioni. Sapremo poi che è Martignoni insieme al nostro Costantino Pala. Non ci vedono anche perché sono ostacolati dal vento che in alto è ancora molto forte.
Alle 11,25 siamo in vetta. In paradiso dopo essere stati all’inferno. Croce senza croste di ghiaccio, pulita, lucente. Siamo contenti. Poi l’aereo di Geiger radente. Rispondiamo al saluto. C’è ancora nel sacco qualcosa per un brindisi.
E giù verso la Monterosahütte. In qualche tratto riaffiora la pista estiva con i segni delle piccozze e dei ramponi: il vento ha fatto proprio piazza pulita. Due ore dopo, sopra il Sattel, incontriamo Costantino Pala, Bernardo Tagliaferri, Enrico Zurbriggen e la guida di Zermatt Arnold Biner. Abbracci e strette di mano.
C’è anche l’elicottero per trasportarci a valle. Ma stiamo bene e quindi preferiamo scendere a piedi. Più sotto incontriamo gli altri amici. Erminio Ranzoni, Carletto Antonioletti, Germano Battaglia, Ernesto Burgener e Primo Zurbriggen. Qualcuno ha gli occhi umidi. Hanno tentato più volte di venirci incontro, di raggiungere la vetta; ma la bufera li ha sempre respinti.
È una vittoria di tutti. Anche di Gildo, che certo da lassù ci ha dato una mano.
Luciano Bettineschi
(guida del CAI)