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Altrove

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La montagna dell’identità e dell’alterità

Con un saggio di Enrico Camanni e un saggio di Valentina Porcellana

Cartonato con sovraccoperta plastificata a colori, formato cm 14x21,5, 288 pagine con inserto fotografico

ISBN 978-88-8068-459-6
Disponibile in libreria
Con un saggio di Enrico Camanni e un saggio di Valentina Porcellana

 

Recensioni

  • Notiziario CDP
    Notiziario del Centro di documentazione

    Altrove
  • Avvenire
    Mal d'altezza: la montagna soffre
  • Coumboscuro
    Gent d'amoun

  • La Regione Ticino
    La montagna come non l’abbiamo mai vista
    ‘Altrove’ smonta stereotipi e nuove ideologie dell’identità alpina    
     
    Lasciamo perdere la “montagna d’una volta”, e lasciamo perdere una presunta “autenticità” di cui si fa scialo in narrazioni edificanti, non meno che in testi pubblicitari e in pubblicazioni museali. Ascoltiamo Erich Giordano e Lorenzo Delfino: “L’idea dimontagnasi nutre di pregiudizi e stereotipi. Anzi, diversi di essi – l’autentico, il naturale, l’originale, il puro – conformano la sua identità e, in forza del loro carattere di cose semplici, facilitano l’identificazione e, allo stesso tempo, la organizzano”. I due firmano insieme un testo estremamente interessante Altrove Lamontagnadell’identità e dell’alterità (Priuli&Verlucca, pagg. 270, 17,50 euro) che esamina e scompone categorie venute in auge da alcuni anni, soprattutto quella dell’identità, emersa come valore – se non come totem – da categorie come, appunto, naturale, autentico, originale. Concetti che lisciano il pelo non solo di chi nutre nostalgie surrettizie per passati idilliaci, quasi sempre per sentito dire; ma anche di chi vi ha edificato biechi programmi politici di facile presa. E il paradosso è che quest’autenticità di cui molti – inbuonafede enemmeno tra i più sprovveduti – hanno fatto la riscoperta, prodigandosi in iniziative pur lodevoli a beneficio di aree alpine periferiche, questa autenticità è spesso la tarda riproduzione di una immagine venuta in realtà da fuori. Basti pensare a come si è formato un Heidi-pensiero (ben oltre i confini svizzeri) contemporaneamente allo svuotarsi delle valli. “Oggi – scrivonoancora Giordanoe Delfino – si assiste all’insorgere di una condizione davvero preoccupante, non solo per le sue dimensioni,maper il carattere regressivo, che si accompagna alle crisi ma ne rende particolarmente difficile il risolvimento. […] Dispersi i valori dominanti e l’ideologia politica, giunti ormai a una fase recessiva dell’economia, si proclama un’orgogliosa svolta al passato”, che ignora la storia e si sottrae al dovere del presente. Completanoil testoduesaggi di Enrico Camanni (Immagine e percezione delle Alpi) e di Valentina Porcellana (Il paese dove le galline beccano le stelle) e diciotto interviste a gente “di” montagna. Che aiutano a capire. Una grafica, infine, e un impianto editoriale meno respingenti aiuterebbero un libro che ha da sé molti meriti.  

  • La Stampa
    Basta luoghi comuni sul mito delle Alpi
    La parte più bella l’ho trovata in quei 18 dialoghi-intervista che partono da pagina 117, quasi a cornice dei saggi Camanni e Porcellana, e allo scritto degli autori Giordano e Delfino. Raccontano la montagna. Oggi. Imprenditori, studenti, guide alpine, uomini di fede, allevatori, amministratori, intellettuali, artisti.Donnee uomini. Dialogo libero, senza una gabbia didomandenelle quali costringere i protagonisti. Ne viene fuori un mosaico unico, straordinario, dove le parole si riappropriano del giusto spessore.

  • Savona News
    Savona: CAI presenta il libro di Delfino e Giordanp

Estratti



Le categorie di identità, autenticità e naturalità fanno parte da tempo del lessico della montagna e vengono spesso indicate come un rimedio irrinunciabile alla perdurante crisi della periferia alpina, se non addirittura come una soluzione ai problemi del mondo globale. Gli autori invitano a ridimensionare la portata di concetti che appaiono ambigui e problematici, in un percorso che porta a considerare la montagna non più come una proprietà o un’immagine speculare di sé, ma come un Altrove che chiama alla responsabilità al di là dell’appartenenza.
“Un saggio appassionato”
Con interviste-colloqui a un campione tipologico di residenti

Sommario

ENRICO CAMANNI
IMMAGINE E PERCEZIONE DELLE ALPI
Un inquadramento storico

Le Alpi brutte e inutili
Le Alpi terra di rifugio
Le Alpi belle e desiderate
Valligiani orrendi e valligiani buoni
Cittadini in cerca del paradiso: il mito romantico
Montanari in cerca di riscatto: il mito urbano
La crisi dei miti
L’immagine contemporanea

VALENTINA PORCELLANA
Il paese dove le galline beccano le stelle
Riflessioni antropologiche sul mondo alpino contemporaneo

La costruzione dell’altro e dell’altrove
Antropologia della prossimità. Le Alpi: qui o altrove?
La messa in scena dell’altro e dell’altrove
Tribù alpine e villaggio globale

ERICH GIORDANO E LORENZO DELFINO
ALTROVE
La montagna dell’identità e dell’alterità

Al crepuscolo
Argonauti delle Alpi occidentali
Orizzonti perduti
Confini
Identità a norma di legge
Autori dell’Autentico
La Vera Montagna
Come una pertica sull’acqua?
Lei, noi: l’Altro

Le interviste

Presentazione
Donato Bergese
Luisa Pellegrino
Stefano Degioanni
Carlo Alberto e Liviana Solero
Ferruccio Fournier
Federica Beux
Gianni Castagneri
Claudio Tron
Werner Bätzing
Sergio e Anna Arneodo
Alberto Bertone
Giorgio Diritti
Matteo e Loredana Aimar
Marco Spataro
Don Luca Margaria
Mattia Colavita
Silvano Galfione
Roberto Canu

Bibliografia

Al crepuscolo

Entre chien et loup: con questa curiosa espressione di origine popolare – letteralmente «tra cane e lupo» – nella lingua francese è indicato il crepuscolo. Di solito, quando pensiamo al mondo rurale abbiamo la tentazione di crederlo portatore di una saggezza concreta, saldamente ancorata al reale, lontana dalle sofisticazioni. Per questa ragione un’espressione come entre chien et loup ci appare doppiamente rivelatrice: da un lato sgombra il campo da un facile pregiudizio, quello della linearità e della schiettezza contadine, «pane al pane, vino al vino»; dall’altro dimostra quanto possa essere articolato il rapporto con la realtà e ambiguo il processo definitorio. In più è la potente dimostrazione della forza creatrice della lingua, che non serve soltanto a indicare, anzi spesso allude.
Il crepuscolo non è un concetto filosofico complesso; in fondo ciascuno di noi lo saprebbe riconoscere facilmente. A prima vista, quindi, non sfida la nostra capacità di comprendere; tuttavia, se dovessimo fornire una sua definizione, presumibilmente non sapremmo fare di meglio che metterlo in relazione con il giorno e con la notte, da qualche parte tra il cane e il lupo. Persino in epoca romana, crepusculum era fondamentalmente il diminutivo di creper (oscuro): una sorta di oscurità in tono minore, dubiae crepuscula lucis1.
La vaghezza del crepuscolo, la sua natura incerta, giungono fino a noi e alla nostra concreta quotidianità, portando con sé l’inquietudine del rapporto tra gli oggetti e le parole, tra la lingua e i segni che traccia intorno e dentro alle cose: se il crepuscolo è posto tra il giorno e la notte, è possibile individuarne dei confini certi? Se dividessimo il periodo che va dalla luce al crepuscolo al buio in una scansione di tempo sufficientemente piccola, saremmo in grado di ascrivere ognuno dei momenti elementari a un termine o all’altro? Talvolta, nello sforzo di cercare il limite tra un’idea e un’altra, si corre il rischio di rimanere con un pugno di mosche in mano: «immaginiamo ora un insieme di centomila chicchi di grano disposti a formare un mucchio; supponiamo poi di togliere un chicco di grano alla volta dal mucchio. Alla fine ci troveremo senza chicchi di grano e senza mucchio. Ma nessuno saprebbe dire qual è l’ultimo istante in cui abbiamo a che fare con un mucchio o il primo istante in cui non c’è più un mucchio»2. Forse, in certe occasioni dovremmo arrenderci di fronte alla ricchezza delle sfumature: chiudere ogni concetto in una scatola, più che una vittoria della comprensione, è un impoverimento.
In altre parole, è legittimo chiedersi se e quanto le categorie e i termini che noi utilizziamo per osservare e descrivere la realtà rimandino a una qualche essenza profonda delle cose, se esistano, «da una parte, dei fatti allo stato puro che possiedono ciò che in filosofia si chiama lo statuto di cosa in sé, ossia di assoluto; dall’altra, dei discorsi che enunciano e, nel caso della descrizione, sillabano con difficoltà questi fatti in maniera mimetica per fornirne una copia conforme»3. Secondo una linea di pensiero che ha attraversato i secoli a partire dalla riflessione di Aristotele sarebbe proprio così: egli infatti distingueva senza indugio l’essenza di un oggetto – la sua natura – dagli accidenti, qualità complementari e non indispensabili alla sua definizione4.
Sappiamo bene quanto le autorità filosofiche greche abbiano giocato un ruolo basilare nella cultura occidentale e abbiano inciso, anche in maniera sotterranea, sul nostro modo di vedere e sentire. Per quasi duemila anni si è cercato – da parte di intellettuali, scienziati, religiosi, artisti – di mettere a margine della riflessione gli accidenti, per dedicarsi alla ricerca delle sostanze da incasellare in un quadro ben preciso di riferimenti.[…]

 

INTEVISTA A GIORGIO DIRITTI:

Originario di Bologna, città dove vive e lavora, Giorgio Diritti ha sviluppato la sua formazione come regista collaborando con diversi autori italiani, come Pupi Avati e Federico Fellini, e partecipando alle attività di Ipotesi Cinema, istituto per la formazione di giovani autori coordinato da Ermanno Olmi. Nel 1996 ha fondato la società di produzione cinematografica e televisiva Aranciafilm, nel 2005 è uscito il suo primo lungometraggio, « Il vento fa il suo giro ».

Sono nato a Bologna, ma, a circa due anni e mezzo, ci siamo trasferiti a Biella in Piemonte per necessità lavorative di mio padre: la storia della mia infanzia fino all’adolescenza è fortemente legata a quei luoghi. Quand’ero bambino mi poteva capitare di aprire la finestra la notte e sentire il rumore dei campanacci delle mucche che attraversavano la città per andare agli alpeggi: potrei dire che a Biella si sentono gli odori della montagna che arrivano a valle, come l’odore di letame o, a seconda della stagione, del fieno o dei temporali. Oltre a queste sensazioni olfattive c’è sempre stata una partecipazione alla scoperta vera della montagna con le classiche gite fatte con i genitori e con la parrocchia: in particolare ricordo un campo estivo molto piacevole e bello in una cascina a Bagneri, vicino a Graglia, organizzato dai sacerdoti filippini in una baita ristrutturata.
Allora andare in quei luoghi voleva ancora dire incontrare pienamente l’attività della pastorizia e dell’agricoltura in montagna: a parte noi, che eravamo una specie di infiltrati, quasi fuori luogo, erano tutti malgari, contadini che avevano le mucche e facevano i formaggi. In quel periodo mi sono avvicinato alla bellezza dei volti e dei luoghi: è da lì che ho iniziato ad amare le case in pietra, le travi in legno cotte dal sole, quella sensazione di una casa fatta della materia del terreno, che quasi non sembra una costruzione artificiale dell’uomo.

Quando hai iniziato a scoprire la montagna in maggiore autonomia?
Quando avevo dodici anni, sempre per il lavoro di mio padre, ci siamo trasferiti a Genova. Mentre per i miei genitori – di origini istriane, nati sul mare – si trattò di una sorta di ritorno a casa, io in quell’ambiente ritrovai comunque un certo sapore di montagna: infatti avevo conosciuto degli amici con una forte passione per le Alpi ed erano nate delle iniziative che allora non avevano un nome ben definito, ma che oggi si chiamerebbero trekking. Dormivamo in tende canadesi pesantissime a 1200 e 1300 metri: ovviamente di notte ghiacciava, faceva freddo, ricordo che l’esperienza era abbastanza forte e proprio per questo molto bella.

Come sei arrivato al cinema?
Quando abitavo a Genova ero già appassionato di teatro e di musica; nel momento in cui, all’età di vent’anni, mi sono trasferito con la mia famiglia a Bologna ho avuto l’opportunità di lavorare in ambito musicale per un periodo tra i gruppi giovanili della città. Facevo il manager e frequentavo la Fonoprint, uno degli studi di registrazione più importanti d’Italia: giravano i più grandi artisti e un giorno l’aiuto regista di Pupi Avati venne a trovare Lucio Dalla per realizzare delle riprese di un concerto a Milano. In quell’occasione ebbi il primo aggancio con il mondo del cinema: in poco tempo cominciai a lavorare come comparsa e volontario in alcuni film di Ferreri e di Avati. Negli anni la collaborazione con Pupi Avati si fece più impegnativa, in particolare nell’ambito della produzione, passando via via da segretario fino a diventare direttore di produzione, con responsabilità, anche finanziare, grandissime.

Come mai sei passato dal ruolo organizzativo a quello di autore?
C’era dentro di me un desiderio di espressione artistica: avevo voglia di dire alcune cose, ma, paradossalmente, ero diventato così bravo che diventava ormai veramente difficile non lavorare nel settore organizzativo, anche perché iniziavano a pagarmi molto bene. Però, dopo aver frequentato una specie di Scuola di Cinema coordinata da Ermanno Olmi a Bassano del Grappa, maturò in me la convinzione che dovevo voltare pagina a quel punto della mia vita, altrimenti non l’avrei più fatto.
Un po’ alla volta iniziai a girare i primi cortometraggi e a scrivere progetti nei settori in cui è possibile trovare spazio a Bologna: la comunicazione aziendale, i documentari, i lavori per le tv. Inoltre mi ero ritagliato una sopravvivenza nel montaggio, mettendo un po’ da parte le mie aspirazioni cinematografiche. Finché un giorno Fredo Valla, uno scrittore che avevo conosciuto in quegli anni, mi parlò di un soggetto che nasceva dalla sua vita a Ostana, in valle Po: pensai subito che potesse diventare un buon film.

Cosa ti colpì di quel soggetto?
Anzitutto, per certi aspetti, ritrovai la mia infanzia in montagna; inoltre mi pareva interessante lavorare su un progetto che, seppur ambientato in un microcosmo, offriva la possibilità di parlare di temi più ampi. Il vento fa il suo giro si configurò in modo più completo quando scrivemmo la sceneggiatura: c’era molta affinità con Fredo nel porre in evidenza le difficoltà del vivere in montagna, l’evoluzione della montagna odierna, le problematiche dello spopolamento e del ripopolamento.
I tempi di realizzazione sono stati molto lunghi: ho iniziato a scrivere nel 1998 e le riprese sono cominciate cinque anni dopo. In più, una volta finito il film nel 2005, è iniziato un percorso un po’ curioso, in quanto il meccanismo distributivo in Italia è impantanato in regole strane e interessi particolari molto forti: per questo non si riusciva a uscire in sala e abbiamo deciso di distribuirlo. Per fortuna, oltre ai successi nei festival in cui è stato presentato, il film è stato molto apprezzato dal pubblico e il tempo ci ha regalato notevoli soddisfazioni morali: però rimane il fatto oggettivo iniziale, ovvero che un film del genere in Italia non si potrebbe produrre – se non con un’iniziativa un po’ folle come la nostra – perché le commissioni e il Ministero a suo tempo avevano detto che nella trama erano presenti troppi personaggi, che, essendo girato in tre lingue, era difficile da capire, che, poiché trattava di capre e pastori, non si capiva bene a chi dovesse interessare.

Qual è, in poche parole, il tema del film?
Il vento fa il suo giro non ha un solo tema e forse è proprio questa la sua forza: il film attraversa la dimensione del contatto tra gli uomini e la loro capacità di vivere assieme anche nella diversità; inoltre indaga il rapporto con la natura e con l’ambiente come elemento fondamentale della sopravvivenza dell’uomo e della realizzazione di se stessi. Poi, volendo, c’è anche lo spopolamento e il percorso attraverso il quale le identità linguistica e culturale, nel momento in cui si arroccano a ricordo del passato, dichiarano la loro morte, la loro estinzione.

Questo film avrebbe potuto essere ambientato in un contesto diverso rispetto alla montagna?
Credo di sì, anche se sicuramente lì abbiamo trovato tutti gli elementi per arricchire e dare maggiore energia al progetto, perché la montagna è contrasto, natura, ambiente e paesaggio affascinante; ci culla e ci terrorizza nello stesso tempo. La montagna ci fornisce sensazioni molto contrastanti e questo è uno degli elementi portanti del film: il lavoro di scelta dei luoghi, dei volti e delle situazioni è sempre stato guidato da questa logica. Nulla è stato girato a caso e le scelte fatte intendono dare una sensazione anche fotograficamente precisa: da un lato non raccontare la montagna come una cartolina, dall’altro mostrare ciò che accade dietro, fare sì che gli sfondi siano narrativi tanto quanto avviene in scena. Così le piogge e i temporali diventano una componente psicologica del racconto.

Nella scrittura del film cosa hai portato di tuo? Hai scritto con la grammatica del cinema o con quella dei ricordi?
Direi entrambe le cose, senza dimenticare che c’è anche il fondamentale apporto nella scrittura di Fredo Valla, con la sua vita spesa in montagna, con la sua passione, con avi che hanno vissuto in quei luoghi. Una delle cose che mi fa più piacere quando parlo con degli spettatori al termine delle proiezioni è sentirmi dire che il film trasmette addirittura degli odori: è una cosa molto bella e interessante, perché significa che probabilmente alcune sensazioni della mia infanzia in qualche modo sono passate sulla pellicola. Ovviamente nel momento in cui si fa cinema, come nel mio caso, con una forte partecipazione e un forte senso di responsabilità, inevitabilmente il film è anche espressione di me e della mia storia personale: quindi affiora anche il mestiere che ho acquisito negli anni facendo documentari o lavorando con registi importanti. Credo che gli strumenti tecnici o l’esperienza professionale siano la chiave per tirare fuori l’anima, per esprimere al meglio certe cose.

Nel dare allo sfondo il peso di un personaggio, le figure umane ne diventano parte?
Non abbiamo mai avuto dubbi sulla scelta di selezionare degli attori del luogo, con le facce cotte dal sole, giusti, veri: intanto perché mi sembra coerente con la storia e perché credo che un cinema che trasuda verità sia più interessante rispetto a una storia raccontata tanto per far passare un paio d’ore; inoltre queste facce sono anche l’espressione di un luogo: le pieghe della roccia sono simili alle rughe dei volti e quindi si sposano bene assieme.

La montagna rende feroci?
La montagna può rendere, se non feroci, quantomeno prudenti, fa diventare le persone chiuse. L’isolamento e la difficoltà del vivere in montagna possono portare a degli estremi. Dobbiamo ricordarci, tra l’altro, che le popolazioni di montagna nei secoli non hanno avuto molto scambio di sangue: le persone si sono spesso sposate tra di loro e questo ha dato origine a tensioni e a situazioni famigliari difficili. Realizzando le interviste per il documentario sui bambini « piazzati », dati in affitto, ho parlato con alcuni psicologi che lavorano nelle Usl di montagna e mi hanno raccontato di grandi problemi di salute mentale, dovuti all’isolamento, alla genetica e alle molestie sessuali: per capirci, l’accoppiamento tra fratelli, o tra consanguinei, o tra zii con le bambine, accadeva abbastanza spesso. Questo tipo di trauma e di dinamiche hanno degli effetti, come racconto nel film: ogni violenza, ogni dolore che subiamo – tanto più se avviene nella fase adolescenziale – prima o poi rischia di esplodere contro noi stessi o può diventare la chiave per un’aggressione verso gli altri.

Questo vale anche per la montagna di oggi, che sotto questo aspetto è indubbiamente più serena di un tempo?
Secondo me le cose sono cambiate, ma ci sono ancora delle nicchie di persone chiuse. Il vero spopolamento della montagna è avvenuto nel dopoguerra: chi è stato via ha ormai acquisito un modus vivendi e una capacità di socializzazione diversi, mentre chi è rimasto – forse perché non aveva il coraggio di andare via o perché era una persona timida, paurosa e chiusa – talvolta è diventato ostile verso lo straniero e il diverso.
Non solo, molta gente di montagna è stata povera, ha vissuto in una grande miseria fino a metà Novecento: c’è quindi una necessità di difesa del territorio, è importante definire la proprietà nei pascoli. Il senso di possesso è fortissimo, anche se è un po’ anacronistico perché in realtà spesso non ci sono più né mucche né pastori: purtroppo molti pascoli in montagna non possono essere utilizzati perché i proprietari non lo consentono. In questo modo un patrimonio potenziale è diventato inconsistente, mentre il senso della proprietà continua a farsi sentire. Oggi la terra riveste un valore affettivo, ma c’è anche un sentimento di identità che fa sì che, per molti che sono emigrati in tutto il mondo, il fatto di avere in val Brembana tre ettari di boschivo significa avere una casa propria, anche se non la si vedrà mai.

Come si può dare un valore nuovo alla terra?
Penso che probabilmente, in Italia, una politica diversa avrebbe potuto salvaguardare la montagna: in Germania, in Austria o in Svizzera, ad esempio, si vede da un lato lo spopolamento, ma dall’altro zone dove ci sono attività produttive fiorenti. Pensiamo all’Emmental, diventato uno dei formaggi più importanti al mondo quando in Italia c’era la vergogna, da parte degli agricoltori locali, nel proporre un alimento che, in fondo, puzzava. Solo ora, a distanza di anni, il patrimonio – culturale, ma soprattutto gastronomico – della produzione alimentare in Italia è stato rivalutato.

Non c’è il rischio che si sia passati da una vergogna infondata a un eccessivo orgoglio?
Sono d’accordo con voi: a questo proposito ricordo che, quando muovevamo i primi passi nella produzione del film, una delle scommesse più difficili, sollevata da un funzionario dell’Assessorato Regionale alla Cultura e Minoranze Linguistiche, era proprio fare un film con gli Occitani, perché ognuno va per la sua strada. Cucire tutte queste relazioni, questi rapporti, in un equilibrio molto difficile ma alla fine vincente è stato stimolante: per superare il problema nelle riunioni ricordavo spesso che non dovevamo stabilire chi era il più Occitano tra i presenti, che non c’era nessuna gara da vincere.

Da cosa derivava questa smania?
Da due elementi: da un lato la voglia di essere i portatori dell’identità antica, come avviene nelle religioni – dove ci sono i fedeli più fedeli degli altri –; dall’altro per il denaro. Con la legge sulla tutela delle minoranze linguistiche, purtroppo, quello che doveva essere un obiettivo ideale è diventato un obiettivo di sopravvivenza: tutelare le minoranze permette di ottenere dei sussidi e quindi nascono tante associazioni, ognuna delle quali, secondo la logica tutta italiana dei finanziamenti a pioggia, riceve qualche soldino. Tutto ciò, agli occhi di uno che arrivava da fuori, faceva un po’ sorridere e un po’ tristezza, perché in realtà credo che la logica dovrebbe essere quella di creare, se ci sono dei problemi veri e grossi, un’associazione forte e con il potere di intervenire.

Ma il tema dell’identità non si presta a una continua rivendicazione, a presentarsi come più identici degli altri?
Io penso che il discorso economico sia fondamentale. Non tutte le associazioni si danno da fare per i problemi dello spopolamento della montagna, sulla necessità di favorire nuovi pascoli o, banalmente, di avere dei pulmini per portare i ragazzi a scuola: per molti la priorità è un’altra, per alcuni magari insegnare l’occitano nelle scuole. Anche Fredo Valla, che vive in montagna con grande difficoltà, ha spesso modo di polemizzare perché si fanno duecentomila iniziative di carattere storico, museale, culturale e poi non c’è internet e, se nevica, rischia di rimanere isolato senza luce e telefono per una settimana, come è successo quest’anno.

Come avete fatto a coinvolgere le persone a recitare un ruolo ambiguo, a recitare se stesse con un’accezione negativa?
Tre elementi hanno permesso questo risultato: il primo è che abbiamo parlato a queste persone apertamente, spiegando cosa si andava facendo con grande tranquillità e onestà; il secondo è il fatto che conoscono i problemi che ci sono sul territorio e sanno che spesso sono causati da gruppi ristretti di gente inospitale, un 5 o 10 per cento che però fa danno anche a tutti gli altri; infine, come è stato anche sottolineato da un ex sindaco locale durante una presentazione del film, molti credono che sia importante parlare di questi temi, perché nascondersi o far finta di niente non risolve le questioni.


Ma allora avete trovato una società decisamente più aperta rispetto a quella che viene descritta nel film?
Certo, altrimenti non si sarebbe fatto nulla. La cosa interessante del progetto Il vento fa il suo giro è proprio che, mentre il film narra una cosa, allo stesso tempo essere riusciti a girarlo rende evidente e palese che c’è anche un’altra realtà. Il film non offre una sola chiave di lettura: mostra chiaramente come nell’ambito della montagna ci siano situazioni molto diverse. Inoltre, mette in luce qualcosa di valido anche per il condominio di Bologna o per la città vicino a San Francisco, non ha una valenza specifica solo per un territorio. Cambiano le metodologie, ma la meschinità umana, purtroppo, resta la stessa: le invidie, le insicurezze, le frustrazioni si ripropongono. Per questo, anche se il film è ambientato in montagna, in realtà racconta del mondo: scherzando con la troupe dicevamo che avremmo potuto girare « Philippe al mare », all’isola di Pantelleria o a Filicudi a fare il pescatore.

Perché la montagna è paragonata spesso a un’isola?
Molto spesso guardiamo la montagna da valle e ci si presenta come un confine, un obiettivo che, sotto un certo punto di vista, è anche un muro. Questo limite spinge da un lato alla voglia di superarlo, dall’altro fa sentire protetti, chiusi, isolati.

L’identità è un confine?
L’identità può essere un confine quando è la base per un orgoglio che è arroganza. Credo, però, che essa sia un grande patrimonio da tutelare, nei casi in cui non si riduce pateticamente, ad esempio, alla bandiera. Per me i caratteri dell’identità dovrebbero essere nascosti, dati quasi per scontati, ma non manifestati o espressi con la lotta. Una società moderna dovrebbe essere basata sul rapporto tra persone che si riconoscono con le proprie qualità al di là del fatto che parlino italiano, turco o fiammingo. Nel film, ad esempio, uno degli elementi principali è che i protagonisti parlano tutti lingue diverse; ma non è quello il fattore che impedisce la reciproca comprensione o fornisce l’occasione per gli scontri: sono l’invidia e la mancanza di accettazione del valore dell’altra persona a rendere le relazioni umane difficoltose.
 

 
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